Cosa succede se un gioco inclusivo e apprezzato come Baldur’s Gate 3 viene citato da una delle sue attrici principali per denunciare un presunto “taglio sistematico” delle storyline inclusive nel gaming? Panico da una parte, ironia dall’altra. Ma soprattutto: nessuna prova concreta.
Tutto parte da un’intervista a The Gamer, dove Samantha Béart – la voce dell’amatissima Karlach – dice chiaro e tondo:
“Senza fare nomi, so che sta succedendo. Le storie inclusive vengono tagliate.”
“In questo clima, BG3 forse non verrebbe nemmeno approvato.”
E a quel punto, l’articolo vira verso un editoriale mascherato da reportage, tirando in ballo Trump, le leggi anti-DEI e il famigerato spettro del GamerGate. Ma con pochissimi dati e tante congetture.
Trump, l’ordine anti-DEI e l’effetto domino
Partiamo dal punto politico. Sì, l’amministrazione Trump ha davvero firmato un ordine esecutivo a gennaio 2025 (Executive Order 14151), vietando a enti federali di destinare fondi a programmi basati su criteri come razza, identità di genere o orientamento sessuale.
Il clima culturale si è indurito? Sicuramente. Diverse aziende tech – tra cui Meta e Walmart – hanno tagliato silenziosamente i loro reparti DEI. E sì, anche il gaming si è adeguato: Take-Two (la casa di GTA) ha rimosso dal report annuale ogni riferimento al DEI, sostituendolo con “diversity of thought”.
Insomma, la tendenza c’è. Ma è sufficiente a parlare di censura creativa?
Baldur’s Gate 3 non è diventato un cult per essere “inclusivo”
Il successo di BG3 – oltre 15 milioni di copie vendute – non nasce da un’agenda politica, ma da una scrittura eccellente e una libertà narrativa rarissima oggi. Vuoi giocare un druido gay, una tiefling pansessuale o un chierico maschio cis che se ne frega dell’amore? Fallo. Il gioco non ti forza niente.
Quella sì che è vera inclusività: naturale, organica, mai urlata. Nessuna morale infilata a forza, nessuna bandierina come marketing hook.
Il contrasto? Titoli come Dragon Age: The Veilguard, che nel 2024 si sono presentati con un trailer concentrato solo su design e identità dei personaggi, dimenticando gameplay e worldbuilding. Il risultato? Critiche a pioggia.
E non da “hater tossici”, ma da fan storici del franchise.
Ma ci sono davvero tagli nascosti?
Qui la cosa si fa scivolosa. Béart non cita giochi o studi. The Gamer non fa fact-check. E non ci sono esempi di storie rimosse per pressione politica.
Certo, qualche sviluppatore LGBTQIA+ ha dichiarato (soprattutto anonimamente) di sentirsi isolato nei team da quando sono spariti spazi sicuri e policies DEI. Ma siamo ben lontani da un complotto anti-diversità. Al massimo, è un adattamento culturale in risposta a un’America sempre più polarizzata.
GamerGate? Ancora?
Nel pezzo si tira in ballo il ritorno del GamerGate. Ma… dove? Non ci sono hashtag, movimenti, campagne coordinate. Solo il solito uso del termine come “spauracchio ideologico”. Comodo per evocare il male assoluto, ma totalmente scollegato dal contesto del 2025.
La verità è meno sexy: inclusione sì, ma con qualità
La vera lezione l’ha data Baldur’s Gate 3. Non serve sventolare bandiere per creare un gioco inclusivo. Serve scrivere bene, offrire scelte reali, integrare la diversità nel cuore del gameplay. I giocatori lo vedono, lo capiscono e lo premiano.
Quando invece la diversità viene usata come scudo per coprire gameplay fiacco o narrazione povera, la reazione arriva. E non ha niente a che fare con l’odio. Ha a che fare con le aspettative di qualità.
E tu cosa ne pensi? La diversità è sotto attacco o semplicemente non può sostituire il buon design? Dicci la tua su Instagram e raccontaci quale gioco, secondo te, ha gestito meglio il tema.