In Europa è scoppiata una guerra ideologica nel mondo del gaming. Da un lato c’è Stop Killing Games, iniziativa nata per impedire che le software house spengano server e giochi online, anche in modalità single player, lasciando i titoli inutilizzabili. Dall’altro c’è chi, più che con un cartello in mano, vorrebbe rispondere col portafoglio. Letteralmente.
L’idea di fondo è semplice: se un gioco che hai comprato diventa ingiocabile per scelta dell’editore, dovresti avere strumenti per continuare a giocarci. La petizione europea ha superato 1 milione di firme entro il 3 luglio 2025, guadagnandosi un posto nel dibattito di Bruxelles. Ubisoft, EA e altre major si sono schierate contro: “Costi troppo alti, rischi di sicurezza e limiti alla creatività” è la loro linea ufficiale.
Ma non tutti i gamer la vedono come una battaglia da combattere in prima linea.
Il fronte “non serve una legge”
C’è chi sostiene che questa sia una norma poco urgente. Non dannosa, ma inutile. Il ragionamento è diretto: se un’azienda chiude un gioco dopo pochi anni, la vera arma che hai è smettere di comprare i suoi prodotti. Basta non supportare chi tratta male la propria community, e premiare chi, invece, aggiorna e mantiene vivo un titolo per anni.
Il problema, secondo questa visione, è che il giocatore medio si lamenta, ma poi corre a comprare l’ennesimo capitolo di una saga che sa già come andrà a finire. Non serve una legge europea per dire alle persone di usare il cervello prima di aprire il portafoglio.

Il vero nemico? Il cheating
Al posto di un “salvagente” per giochi vecchi, c’è chi vorrebbe un attacco frontale a quello che definisce la piaga del multiplayer moderno: il cheating.
Negli FPS e nei competitivi online, i cheat sono ovunque. Da Warzone a Counter-Strike, fino a titoli più di nicchia, capita di incontrare giocatori che usano software per avere vantaggi sleali. Un business multimilionario che arriva soprattutto da Cina e Russia, difficile da arginare con i sistemi anti-cheat attuali.
La proposta alternativa? Una legge europea che obblighi chi vuole giocare online a fornire documento d’identità o passaporto. In Corea del Sud esiste già qualcosa di simile: chi bara viene bannato in modo permanente e non può ricreare un account dopo 20 minuti. Il rovescio della medaglia è ovvio: per molti sarebbe una violazione della privacy. La risposta secca dei sostenitori di questa misura è: “Se non vuoi dare il documento, gioca offline”.
Il nodo single player always-online
Stop Killing Games riguarda anche i single player che richiedono connessione costante. Qui il dibattito si fa ancora più acceso. Chi è contrario alla legge dice che nel 2025 la connessione internet è uno standard: se un gioco la richiede, non è un dramma, ma una scelta di design legata alla protezione anti-pirateria o a servizi online integrati. Chi non è d’accordo ribatte che l’obbligo di connessione per un single player non ha senso e limita inutilmente la fruibilità.
Libertà di mercato o tutela del consumatore?
La questione si riduce a un bivio:
- Vuoi un’industria regolata da leggi che proteggano il consumatore anche quando fa scelte sbagliate?
- O preferisci un mercato libero, dove la responsabilità è del giocatore, che sceglie cosa premiare e cosa ignorare?
Il rischio è che, nel difendere “diritti” su giochi mediocri e abbandonati, si distolga l’attenzione da problemi più pesanti che influenzano ogni giorno l’esperienza di gioco online.
Una cosa è certa: mentre Stop Killing Games arriverà in Parlamento europeo per il dibattito ufficiale, il cheating continua a dilagare. E questa sì che è una partita in cui stiamo tutti perdendo.
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