Con Hideo Kojima non esistono mezze misure: o ti lascia a bocca aperta… o a bocca asciutta. E con Death Stranding 2: On the Beach, preparati a entrambe le cose. Perché quello che trovi in questo sequel non è solo un gioco, ma una dichiarazione d’intenti. Un grido creativo che sfida l’industria a osare, anche a costo di perdersi.
Ma funziona davvero? O è solo l’ennesimo trip psichedelico che cammina su un filo sottile tra genio e delirio?
Un mondo più vasto, un messaggio più intimo
Lasciata alle spalle l’America del primo capitolo, On the Beach ci spedisce in una versione post-apocalittica e disturbante dell’Australia. E no, non stiamo parlando solo di canguri zombie o tempeste di sabbia: qui la lotta è contro un mondo che non vuole più essere riconnesso. Come sempre, sei Sam Porter Bridges (Norman Reedus), ancora carico di pacchi, ancora immerso nel silenzio di un’umanità frammentata. Ma stavolta, non basta più camminare: devi anche combattere.
E qui viene il bello.
Il gameplay è stato potenziato in ogni direzione. Le consegne sono ancora il cuore dell’esperienza – questo non cambierà mai, per fortuna o purgatorio – ma attorno si sviluppa un sistema stealth-action molto più profondo. A tratti ricorda Metal Gear Solid V, ma con il peso della solitudine addosso. Puoi aggirare nemici in silenzio, pianificare assalti da lontano con un fucile tranquillante, oppure entrare a bordo di un mezzo blindato e fare una strage. E la cosa bella? Tutto questo è dannatamente divertente.
L’azione? Ora ha un’anima
Rispetto al primo gioco, dove il combattimento era più un contorno, qui si sente finalmente il gusto di affrontare una minaccia di petto. Il level design ti offre scelte vere, ti incoraggia a sperimentare. Vuoi giocartela alla Rambo? Puoi farlo. Preferisci un approccio più cerebrale? C’è spazio anche per quello.
IGN lo dice chiaramente: Death Stranding 2 non raggiunge la raffinatezza tattica di un Dishonored o di un The Last of Us Part II, ma si avvicina. E lo fa in modo coerente, restando fedele al suo ritmo unico. Persino le boss fight – enormi, disturbanti, imprevedibili – si possono skippare, ma ti assicuro: non vorrai perdertele. Un polipo meccanico evocato da cultisti in rosso? E non siamo nemmeno a metà gioco.
A ognuno il suo Sam
Uno degli upgrade più riusciti è il sistema di progressione. Non siamo nel territorio RPG classico, ma c’è abbastanza carne al fuoco da personalizzare il proprio Sam: vuoi che sia uno sniper letale? Ti sblocchi la mira assistita. Preferisci schivare e fuggire? Ci sono perk per cancellare le orme o per muoverti più silenziosamente.
E se ti piace l’equipaggiamento strano – ehi, siamo pur sempre in un gioco di Kojima – preparati a un arsenale folle: laser boomerang, pupazzi parlanti che ti insultano, sei-carri elettrificati e chi più ne ha, più ne incolla. E ogni oggetto può essere condiviso con altri giocatori grazie alla magia del multiplayer asincrono. Una scelta di design che, secondo DreamcastGuy, rappresenta “la vera anima del gioco”.
Una grafica che non sembra possibile
E qui siamo tutti d’accordo: visivamente, On the Beach è uno schiaffo in faccia. Letteralmente. Ogni ciglia di Reedus, ogni goccia di pioggia che accelera il tempo, ogni frana che distrugge una montagna… tutto è reso con un realismo quasi offensivo. Su PS5 Pro gira senza caricamenti, senza pop-in, senza rallentamenti. E con una direzione artistica che alterna apocalisse Mad Max a squarci onirici alla Lynch, non c’è un attimo di noia per gli occhi.
Narrazione: tra poesia e delirio
Il cuore pulsante di Death Stranding 2 è sempre lì: la storia. Una storia contorta, stratificata, spesso indecifrabile, ma carica di una sincerità rara. Kojima parla del mondo, dell’uomo, della tecnologia, della morte, dei legami. Non tutto viene spiegato. Non tutto è razionale. Ma quando funziona – e succede spesso – colpisce duro.
IGN sottolinea come il gioco parli della fragilità dell’arte, della pericolosità dell’IA, del peso della memoria. Non è un caso se uno dei nuovi personaggi, Neil, ricorda da vicino Solid Snake: una figura iconica che Kojima ha dovuto lasciarsi alle spalle dopo l’addio a Konami. Questo gioco, in fondo, è anche il suo modo per dire addio a quel passato.
Eppure, nonostante la grandiosità della narrazione, resta una critica condivisa: Sam è ancora troppo silenzioso. Troppo piatto. Quando accadono eventi devastanti, lui aggiusta lo zaino e cammina. Reedus è solido, ma manca di espressività. E il peso emotivo ricade tutto sugli altri: su Fragile (Léa Seydoux), su Higgs (un Troy Baker in stato di grazia), su personaggi assurdi come il “Doll Man” o il tizio che parla con un manichino in una nave volante. No, non stiamo scherzando.
Lentezze e limiti
Non è tutto oro, sia chiaro. L’inizio è lento. Alcune sezioni ti costringono a fare consegne ripetitive prima che la trama riparta. Chi ha amato il primo gioco per i suoi silenzi meditabondi, troverà terreno fertile. Chi cerca una trama serrata e subito coinvolgente… dovrà avere pazienza. E magari farsi un caffè.
In più, se non hai giocato il primo Death Stranding, potresti sentirti perso. C’è un recap all’inizio, ma è superficiale. Ti conviene almeno guardarti un riassunto serio su YouTube prima di buttarti.
Ma allora… vale la pena?
Assolutamente sì, se sei disposto a entrare nel suo mondo alle sue condizioni. Death Stranding 2 è un gioco che non ti prende per mano. Ti lascia nel deserto, ti dà uno zaino e ti dice: “Connettiti.” Ma se ci entri, se accetti le sue regole, potresti trovarti davanti a uno dei titoli più originali e significativi degli ultimi anni.
Non è un’esperienza perfetta. Non lo vuole nemmeno essere. Ma è un’esperienza autentica, personale, disturbante, commovente. Un manifesto autoriale con i budget di un blockbuster. E questa è una cosa che succede sempre più di rado.
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