C’è una frase che ogni gamer adulto ha sentito almeno una volta nella vita:
“Ma davvero giochi ancora ai videogiochi alla tua età?”
È una domanda che arriva puntuale, come una tassa fastidiosa.
Magari la senti a cena da amici, magari da un collega o da un parente convinto che “dopo i vent’anni si smette di giocare”.
E ogni volta, dietro quella domanda, c’è lo stesso sottotesto: i videogiochi sono roba da ragazzini.
Ecco, no.
E adesso ti spiego perché.
Se guardi tre ore di film, sei un cinefilo. Se giochi tre ore, sei un nerd
Facciamo un esempio pratico:
una persona adulta dice di aver passato la serata guardando Pulp Fiction o una miniserie su Netflix.
Nessuno batte ciglio. Anzi, magari scatta pure un dibattito sulla regia, i dialoghi, il finale.
Ma se la stessa persona dice di essersi immersa in Baldur’s Gate 3 o Cyberpunk 2077, cambia tutto.
Sguardi perplessi, silenzi imbarazzati, magari pure una battutina del tipo:
“Ma giochi ancora?”
Sì, giochiamo ancora. E continueremo a farlo.
Perché non è il mezzo a stabilire se qualcosa ha valore culturale.
È il contenuto. È l’esperienza. È quello che ti lascia dentro.
Il grande equivoco: “videogioco = passatempo da bambini”
Molti vedono ancora il videogioco come un passatempo vuoto, uno sparatutto frenetico o un gioco di calcio da fare con gli amici.
Fine.
Il problema è che questa è solo la superficie.
Per ogni Call of Duty, esiste un Journey.
Per ogni FIFA, c’è un Life is Strange, un What Remains of Edith Finch, un The Last of Us.
Stiamo parlando di opere che affrontano temi profondi come:
- il lutto
- la memoria
- la crescita personale
- l’identità
- le relazioni umane
- la depressione, il fallimento, il senso di colpa
E lo fanno con un linguaggio interattivo, in cui il giocatore non è solo spettatore ma parte attiva della narrazione.
Questo è ciò che rende i videogiochi unici: viviamo la storia sulla nostra pelle.
Il videogioco è una forma d’arte. Punto.
Film, libri, musica, pittura… nessuno si sogna di metterli in discussione come veicoli culturali.
Ma quando si parla di videogiochi, molti fanno ancora fatica a riconoscerli come esperienze artistiche.
Eppure, ci sono titoli che hanno ricevuto premi internazionali non solo per la grafica o la meccanica, ma per la scrittura, la regia, le musiche, il modo in cui riescono a raccontare il mondo.
C’è un motivo se università di tutto il mondo studiano il medium videoludico.
E c’è un motivo se mostre e festival culturali iniziano a includere sezioni dedicate al gaming.
Non è una moda passeggera. È un linguaggio che si è evoluto.
Emozioni, catarsi, immersione: giocare è anche elaborare
Quando ho chiesto a decine di persone cosa provano quando giocano, le risposte erano chiare:
giocare è catartico, è terapeutico, è un modo per vivere qualcosa che fuori non c’è.
Il videogioco ti fa ridere, piangere, riflettere, incazzare, commuovere.
Ti mette davanti a scelte morali, ti costringe a osservare le tue emozioni.
Ti fa perdere il senso del tempo come solo le storie più coinvolgenti sanno fare.
È evasione, sì, ma è anche introspezione.
E se questo non è cultura, cos’è?
Ma allora i giochi leggeri? Fortnite, party game, cose così?
Anche qui, vale la pena dirlo forte: non tutto deve essere “alto” per avere valore.
Così come puoi goderti una commedia leggera dopo aver visto un film d’autore,
puoi passare da Red Dead Redemption 2 a una partita a Mario Kart o Fortnite senza perdere dignità culturale.
Il valore non è solo nei contenuti impegnati, ma nel modo in cui usi un linguaggio per esprimerti, rilassarti, connetterti agli altri.
La leggerezza ha un ruolo, esattamente come nel cinema, nella letteratura, nella musica.
L’industria videoludica oggi: numeri da capogiro, ma zero riconoscimento
Nel mondo, i videogiochi generano più soldi del cinema e della musica messi insieme.
Stiamo parlando di oltre 180 miliardi di dollari all’anno.
Giochi come GTA V o The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom hanno avuto più budget, più staff e più tempo di produzione di molti film di Hollywood.
Eppure, nonostante tutto questo, in Italia il videogioco viene ancora trattato come un hobby marginale.
Come se fosse “tempo perso”.
E invece è una delle industrie culturali più potenti e influenti del nostro tempo.
Perché giudichiamo chi gioca?
Forse perché è facile.
È comodo giudicare chi fa qualcosa che non capiamo.
Etichettare, sminuire, ridurre tutto a “una perdita di tempo” per sentirsi un po’ più adulti, un po’ più seri.
È lo stesso atteggiamento che si usava con i fumetti, con il fantasy, con la musica pop.
Poi però col tempo quelle cose sono diventate “accettabili”.
E ora tocca ai videogiochi.
Ma noi, nel frattempo, continuiamo a giocare. E continueremo a farlo, senza vergogna.
Allora cos’è davvero cultura?
Questa è la domanda vera.
Cultura è solo ciò che è “alto”, complesso, intellettuale?
O è tutto ciò che ci parla, che ci coinvolge, che ci cambia dentro?
Perché se è la seconda, allora i videogiochi ne fanno parte a pieno titolo.
E ogni volta che qualcuno li tratta come una cosa da bambini, è solo perché non ha mai davvero giocato.
Vuoi dire la tua su cultura, videogiochi e tutto quello che ci gira attorno?
Seguici su Instagram per news daily, video dritti al punto e contenuti esclusivi pensati per gamer come te.
Ci trovi lì: stessi temi, stesso stile, più spazio per chi ha voglia di partecipare.
@gamecast.official — entra nella conversazione.