Ogni tanto arriva un gioco che ti fa mettere in pausa tutto. Ti prende a schiaffi, ti fa sentire stupido, poi ti guarda con aria di sfida e ti dice: “Vuoi davvero mollare adesso?”. Blades of Fire è esattamente quel tipo di gioco. Un soulslike atipico, ruvido, sbilanciato qua e là, ma con un’identità fortissima. Dopo oltre 60 ore di gioco e due recensioni diverse lette (entrambe di chi ci ha messo le mani sopra per davvero), ti diciamo com’è. Ma davvero.
L’inizio non perdona: ti butta nel fuoco, letteralmente

Parti nei panni di Aaron, un fabbro guerriero che vive in un mondo dove la Regina Naria ha trasformato l’acciaio in pietra, rendendo inutili tutte le armi. Bella trovata, no? Per fortuna tu hai un martello sacro capace di forgiare armi con metalli divini, e sì, sei l’unico che può fermare questa follia.
Detta così sembra la solita storia fantasy. In realtà è solo il contesto di un’esperienza molto più tosta di quanto sembri. Il gioco ti spiega poco e male. Non c’è tutorial vero e proprio. Parti, sbatti contro un muro (letteralmente o metaforicamente), muori, e impari.
Il combat system è un brutto bastardo… e funziona
Se hai giocato a un soulslike, pensi di sapere cosa ti aspetta. E invece Blades of Fire ti frega. Qui la combat dance non è solo parry, schiva e colpisci. C’è una meccanica chiave: la direzione del colpo.
Ogni nemico ha zone vulnerabili e protette. E no, non è solo estetica: se attacchi una parte corazzata, rimbalzi. Se becchi il punto debole, fai male. Ma i nemici cambiano postura, si coprono, si scoprono. Devi adattarti. Il pulsante che premi decide se colpisci in alto, in basso, a sinistra o destra. E se sbagli, vieni punito.
Qui non si buttonmasha. Mai. Anche i mob base ti massacrano se ti distrai. Gli scontri diventano piccoli puzzle in tempo reale, e ogni kill guadagnata è una micro-vittoria.
Muoio, perdo l’arma, bestemmio. E riparto.
Quando muori, torni all’ultima fucina usata (sì, come i falò in Dark Souls). Ma il twist? Perdi l’arma equipaggiata, che rimane dove sei morto. Vuoi recuperarla? Devi tornare lì vivo. Se nel frattempo ne hai forgiata un’altra, magari meno adatta… peggio per te.
Questo aggiunge una tensione bestiale a ogni run. Non solo perdi progressi, ma rischi di perdere l’arma a cui ti eri affezionato. E credimi, dopo averla costruita da zero, quell’arma è tua. Non è un drop. È sangue, sudore e martellate.
Il crafting è geniale… o una tortura, dipende da te
Parliamo della fucina. È il cuore del gioco. Qui scegli il metallo, la forma della lama, la guardia, il tipo di danno. Ma non finisce lì: per forgiare devi affrontare un minigioco dove colpisci l’incudine con tempismo. Se sbagli, l’arma viene peggio. Se fai bene, ottieni bonus a resistenza, riparabilità, potenza.
Alcuni lo amano, altri lo odiano. Un recensore l’ha definito “tedioso fino all’estremo”. Ma il senso c’è: ogni arma nasce letteralmente dalle tue mani. E se si rompe, è colpa tua.
Ah, sì: le armi si consumano. Ogni colpo abbassa la durata. Puoi affilarle, ma a un certo punto si spezzano. E devi riforgiarle da capo. Detesti questo sistema? Blades of Fire non fa per te.
Un mondo vasto, bellissimo… e frustrante
La mappa sembra piccola. In realtà è labirintica, stratificata e piena di segreti. Tunnel sotto altre mappe. Passaggi verticali. Porte che si aprono solo se trovi la leva nel posto più assurdo del mondo.
Peccato che il sistema di navigazione faccia acqua. Il gioco non ti dice dove andare. L’obiettivo è segnato (forse), ma raggiungerlo è un puzzle di suo. E se pensi che una volta scoperto il trucco sarà tutto in discesa… ti sbagli.
Non puoi saltare, non puoi scalare, non hai mappe multilivello. Ti perdi. Ti arrabbi. Poi trovi un’area nuova e torni a essere un bambino in un parco giochi fantasy. È quel tipo di frustrazione che ti lega al gioco. Che ti spinge a volerlo dominare.
Estetica old school, atmosfera grandiosa
Graficamente non fa gridare al miracolo, ma ha uno stile coerente e affascinante. I paesaggi sembrano usciti da un sogno PS2 rifatto nel 2025. Rovine maestose, creature enormi, città decadenti. Non è un gioco bello, è un gioco immaginato bene. Ti immerge. Ti fa sentire dentro.
I nemici sono massicci. I compagni (sì, ci sono) hanno carattere e battute che non scadono nell’inutile. Aaron è un muro con un cuore d’acciaio, ma funziona.
Stili di gioco? Sì, e cambiano davvero
Non è solo marketing: puoi davvero cambiare stile. Forgia un’ascia a due mani e diventi un carro armato lento ma devastante. Passa a due lame leggere e sei una furia danzante. O una lancia per tenere le distanze. E ogni scelta conta: ci sono nemici vulnerabili solo a certi tipi di danno, e altri invulnerabili ad alcuni stili.
Il gioco ti costringe a sperimentare. A cambiare arma. A pensare in anticipo. Non ti lascia nella comfort zone.
Difetti? Sì, ce ne sono. E sono veri.
- La navigazione a volte è un incubo.
- Il sistema di crafting può stancare (specialmente se forgi spesso).
- Le performance su PC non sono sempre fluide (stuttering in alcune build).
- La curva d’apprendimento è verticale.
- Niente qualità di vita: se ti perdi, ti arrangi.
Eppure…
Eppure non riesci a smettere
Ogni volta che chiudi il gioco, ci pensi. Ogni morte, ogni arma fatta bene, ogni passaggio scoperto… ti resta in testa. È uno di quei giochi che non dimentichi dopo una settimana. Ha un’anima ruvida, scomoda, ma autentica.
Una delle due recensioni lo ha definito “un gioco con una lista di problemi più lunga dei pregi, ma con un’identità unica”. Sottoscrivo.
E tu? Sei pronto a sporcarti le mani nella fucina? Hai già forgiato la tua prima arma? Raccontacelo nei commenti.
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