Che fine ha fatto il buon vecchio giornalismo videoludico? Quello che parlava di gameplay, boss segreti e armi OP. Oggi sembra basti una frase in Kingdom Hearts III per lanciare una diagnosi psicologica su un protagonista digitale.
L’ultima trovata? Secondo un articolo di TheGamer, Sora — sì, il ragazzino col Keyblade che passa la vita a salvare mondi Disney — non capirebbe l’amore perché vittima della famigerata “eterosessualità obbligatoria”. Hai letto bene.
Il caso: una scena, mille teorie
Tutto nasce da un momento nel mondo dei Pirati dei Caraibi, dove Davy Jones sussurra un poeticissimo “Ah, love. A dreadful bond…” e Sora risponde candidamente: “Non è vero. Forse devo ancora capire tutto sull’amore, ma so cosa vuol dire condividere il mio cuore con gli altri.”
Una frase tenera. Disney-style. Emozione genuina da shōnen in cammino. Ma no: per TheGamer è la prova che Sora non è solo confuso, ma costretto a sembrare etero da una società che non gli permette di “scoprire chi è davvero”.
Aspetta, cosa?
Da Sora a simbolo queer: salto triplo carpiato
L’autrice dell’articolo — che ammette di rifarsi alle sue esperienze personali da giovane donna queer — reinterpreta le emozioni del personaggio filtrandole attraverso il proprio percorso identitario. Il problema? Trasforma un adolescente fantasy in un caso da manuale di sociologia, ignorando tutto il contesto narrativo di Kingdom Hearts.
E non è un caso isolato. Come ricorda la content creator Vara Dark nel suo video di fuoco contro l’articolo, questo è solo l’ennesimo esempio di una tendenza editoriale sempre più diffusa: usare i videogiochi come campo minato ideologico, piegando ogni trama a una lettura personale. Anche se non sta in piedi.
Il creatore? Chi se ne frega
In tutto questo, la visione di Tetsuya Nomura — creatore del gioco — viene ignorata. L’idea che un autore possa scrivere un personaggio senza dover rispondere a ogni proiezione identitaria sembra fuori moda. Per certi editorialisti, se una storia non parla di te, allora è “oppressiva” o “normativa”.
Vale per Sora, per Link (che secondo altri articoli sarebbe “non binario da sempre”) e pure per Hogwarts Legacy, accusato di veicolare messaggi pericolosi solo perché ambientato nell’universo di J.K. Rowling.
Opinione ≠ Canone
E qui sta il punto. Se ti senti rappresentato da Sora, Link o chiunque altro, nessuno ti toglie questo diritto. È il bello dell’empatia narrativa. Ma non puoi pretendere che il resto del mondo — sviluppatori inclusi — riscriva un personaggio per confermare la tua visione personale. Questo non è dialogo, è imposizione.
Confondere headcanon con verità assoluta è pericoloso. E usare articoli pseudo-analitici per farlo passare come giornalismo lo è ancora di più.
Sora è un bambino, non un manifesto
Alla fine della fiera, Sora ha 15 anni. Non ha ancora dato il primo bacio (forse). È cresciuto su un’isola con due amici, parla con Topolino e lotta contro l’oscurità a colpi di chiavi giganti. Davvero dobbiamo tirarlo dentro dibattiti teorici su orientamenti sessuali e pressioni sociali?
Forse — e dico forse — è solo un ragazzino che cerca di capire cosa significhi amare qualcuno. Che sia Kairi, Riku o semplicemente il mondo. E va bene così.
Conclusione: meno diagnosi, più gamepad
A chi scrive che ogni personaggio videoludico dovrebbe diventare uno specchio ideologico: rilassati. Gioca. Lascia che la narrativa sia anche mistero, ambiguità, crescita.
E magari, la prossima volta che Sora parla di “condividere il cuore”, pensa che forse sta solo facendo quello che i giochi Disney fanno da sempre: raccontare l’amore come forza che salva il mondo. Senza etichette.
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